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Licenziamenti, cambiano i termini per l’impugnazione

17 Gen 2012
Federico D
Contratti, Guida Al Lavoro

E’ ormai diventato un tema fisso del confronto tra governo e sindacati, non solo con il nuovo esecutivo Monti, quello dell’eventuale riforma dell’articolo 18 sul licenziamento facile dei lavoratori. Ma in pochi sembrano essersi accorti che dal 1° gennaio è entrata in vigore una norma importante  che regola l’impugnazione dei licenziamenti stessi.

Si tratta dell’articolo 32, primo comma, della legge 183/2010, ossia il “Collegato lavoro” che è andata a modificare una norma in vigore sin dal 1966, ossia quella che prevede come il lavoratore possa mettere in discussione il licenziamento quando sia ritenuto illegittimo e soprattutto i termini entro i quali sia lecito farlo.

Fino al 30 dicembre scorso la legge prevedeva un termine di decadenza di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento entro il quale il lavoratore, anche attraverso i sindacati, doveva manifestare la volontà di contestare la legittimità del licenziamento. Ovviamente tale termine decorre  o dal momento in cui si riceva la comunicazione di licenziamento in forma scritta oppure una volta ricevuta comunicazione dei motivi che lo giustificano.

L’impugnazione poteva realizzarsi attraverso un ricorso giudiziale ma anche in forma extragiudiziale, attraverso cioè un documento scritto del lavoratore al datore di lavoro nel quale si manifesta una tale volontà e questo tipo di impugnazione serviva per evitare la decadenza, lasciando così al lavoratore la possibilità di agire in giudizio in un momento successivo, purché entro il termine di prescrizione quinquennale.

La nuova legge è intervenuta proprio su questo tema, immettendo il principio che dall’impugnazione extragiudiziale decorra un ulteriore termine di 270 giorni entro il quale il lavoratore deve agire in giudizio oppure proporre alla controparte il tentativo di conciliazione o di arbitrato. Diversamente l’impugnazione anche se è stata presentata è “inefficace”, ossia si verifica il lavoratore non ha più il diritto di agire in giudizio. Nell’ipotesi di mancata accettazione del tentativo di conciliazione o di arbitrato, oppure di esito negativo degli stessi, la legge stabilisce che il ricorso al giudice debba essere depositato entro 60 giorni, sempre pena la decadenza.

Sembrano quindi rientrare in questa nuova casistica alcuni ad esempio il licenziamento discriminatorio della lavoratrice madre o a causa di matrimonio, o ancora il licenziamento intimato oralmente o senza il rispetto della procedura prescritta. Una norma che sembra avvantaggiare i datori di lavoro, ma più che altro serve a ridurre i tempi necessari per il giudizio. E soprattutto dovrebbero esserci riduzioni del numero di contenziosi.

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270 giorni, agire in giudizio, forma extragiudiziale, impugnazione dei licenziamenti, licenziamento discriminatorio, licenziamento facile dei lavoratori, ricorso giudiziale, riforma dell’articolo 18, termini, “Collegato Lavoro”



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